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19 Maggio 2020

Mercato azionario ed economia non sono la stessa cosa

di Joseph V. Amato, President and Chief Investment Officer-Equities

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L’epidemia di coronavirus ha creato danni ingenti e non ha risparmiato nemmeno il legame tra l’indice S&P 500 e l’economia statunitense.

Oltre al tragico costo in termini di vite umane, le ripercussioni negative della crisi da coronavirus hanno colpito molti altri ambiti, dalle interazioni sociali alle filiere produttive globali, dalle prospettive occupazionali ai sistemi sanitari nazionali.
 

Anche il tradizionale legame che unisce il mercato azionario all’economia reale non sembra essere rimasto immune alle conseguenze del virus.

Valutazione pessimista

Anche dopo lo scivolone della settimana scorsa, le perdite da inizio anno dell’S&P 500 Index restano tuttora inferiori al 15%. A metà marzo, l’indice aveva perso il 30%, un livello comunque assimilabile a quelli prevedibili per una normale recessione.
 

Ma basta darsi un’occhiata intorno per capire che questa non è una recessione come tutte le altre. Nel primo trimestre, ha causato una contrazione prossima al 10% nell’economia cinese, seconda potenza economica mondiale e locomotiva della crescita globale. E sempre nel primo trimestre, prima ancora che si avvertissero gli effetti del lockdown globale, ha ridotto del 3,8% il PIL dell’Eurozona e del 2% quello del Regno Unito. Venerdì abbiamo appreso che ad aprile la produzione industriale degli Stati Uniti è scesa del 15% a/a e le vendite al dettaglio del 22%.
 

In America, l’epidemia ha anche cancellato dieci anni di crescita occupazionale, un colpo durissimo che però non è stato inferto uniformemente a tutti i ceti. La settimana scorsa, durante una valutazione pessimista della situazione economica, il presidente della Fed Jerome Powell ha rilevato che a marzo ha perso il lavoro il 40% delle famiglie con reddito inferiore a 40.000 dollari l’anno. E il peggio sarebbe ancora da venire: secondo le stime di alcuni economisti, quando a maggio si conosceranno i dati finali, il tasso di disoccupazione statunitense potrebbe attestarsi al 20-25%.
 

Allo stesso tempo, tuttavia, può anche darsi che il peggio sia ormai alle spalle. La maggior parte delle economie europee sta lentamente ripartendo, anche quelle più colpite dal virus. Ventinove Stati americani, pari al 40% dell’economia statunitense, hanno consentito la riapertura parziale delle attività economiche “non essenziali”. L’attenzione si sta cautamente spostando dal salvataggio di vite umane al salvataggio dei mezzi di sostentamento. Si tratta di un’importante novità nell’ambito del dibattito politico.
 

Tuttavia, pare sempre più chiaro che la ripresa non solo sarà lunga, faticosa e incompleta, ma metterà anche spietatamente a nudo le sperequazioni in termini di reddito e opportunità di accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Come minimo, davanti a simili difficoltà, assisteremo a un aumento delle istanze sociali di dirottare una fetta maggiore della crescita economica verso le classi lavoratrici, a discapito del capitale. Nella peggiore delle ipotesi, l’aggravarsi di simili disuguaglianze sarebbe foriero di veri e propri disordini popolari.
 

Come si inquadra tutto questo nella quota 2800 dell’S&P 500?

Forte dispersione

In realtà, potrebbe non essere così strano come sembra.
 

Alcuni segmenti dell’indice, cioè quelli maggiormente ciclici e più sensibili all’andamento dell’economia, sono stati massacrati come l’economia stessa. Per esempio, al 15 maggio il settore finanziario aveva perso oltre il 30% da inizio anno e quello automobilistico oltre il 40%.
 

Queste perdite sono state oscurate dalla performance di altri titoli azionari di settori non ciclici (come quello sanitario o quello dei beni primari) o di settori che, in circostanze normali, sarebbero ciclici, ma che al momento stanno fornendo servizi essenziali (pensiamo al settore tecnologico e a quello dell’e-Commerce, dove operano i colossi che hanno trainato leggermente dell’S&P 500).
 

Dall’inizio del secolo, i titoli tecnologici e non ciclici difensivi con orientamento growth hanno guadagnato spazi sempre maggiori fino a costituire, oggi, il 70% della capitalizzazione di mercato dell’S&P 500. Secondo le previsioni degli analisti, gli utili di queste società caleranno “solamente” del 13% nel secondo trimestre, a fronte del 71% delle società finanziarie e cicliche.
 

Questa forte dispersione è chiaramente visibile anche in altri indici azionari.
 

La performance dell’S&P 500 è determinata principalmente dalle mega cap, mentre il 45% circa del PIL statunitense viene generato da piccole imprese con meno di 500 dipendenti. Contrariamente all’S&P 500, il Russell 2000 Index, che contiene small e mid cap, ha perso quasi il 30% da inizio anno. Il divario più profondo è quello tra il Russell 1000 Growth Index (large cap), che da inizio anno ha perso meno del 3%, e il Russell 2000 Value Index (small cap), dove prevalgono società cicliche e finanziarie, che nello stesso periodo ha perso quasi il 40%.

Nessun indice azionario è completamente al sicuro

Riassumendo, l’S&P 500 e l’economia non sono la stessa cosa. Sebbene possa sembrare che la crisi di coronavirus abbia in qualche modo danneggiato il legame tra l’uno e l’altra, è anche vero che si trattava di un legame debole in primo luogo.
 

Non dobbiamo stupirci, quindi, della relativa resilienza dell’indice davanti a dati economici così negativi. Ma non dobbiamo neppure presumere che l’S&P 500 sia del tutto immune al virus. A lungo andare, si realizzerà una convergenza tra i fondamentali dell’economia e i mercati finanziari.
 

La nostra view non è mutata: il cammino per uscire dalla crisi sarà lungo e le diverse economie ci metteranno parecchio tempo per riprendersi dalle perdite. Quando in un solo trimestre anche gli utili delle società più resilienti subiscono perdite a doppia cifra, è chiaro che nessun indice azionario è completamente al sicuro da uno shock economico di simile portata. Come ha lasciato intendere la settimana scorsa, l’S&P 500 continuerà a essere dominato dalla volatilità.

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