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26 Giugno 2019

La nuova Lunga Marcia della Cina

di Peter van der Welle, Strategist di Robeco

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Il presidente Xi Jinping ha paragonato la sfida cinese di superare le ostilità esterne ad una “nuova Lunga Marcia”, riferendosi all’epica ritirata dell’Armata Rossa che nel 1934-35 percorse 9000 km nell’arco di un anno per sottrarsi all’accerchiamento delle forze Nazionaliste. Quell’episodio segnò l’ascesa di Mao Tse-tung e la nascita della nazione comunista.

Le dichiarazioni del leader cinese fanno seguito alla recente escalation della guerra commerciale voluta dal presidente Trump, che ha innalzato i dazi su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi e ha minacciato di introdurne dazi del 25% su altri 300 miliardi di dollari di prodotti, infrangendo le speranze di un accordo commerciale a maggio.

Il FMI stima che una guerra commerciale in piena regola potrebbe erodere lo 0,5% dalla crescita economica statunitense e l’1,5% da quella cinese. Vista la correzione del 13% registrata dalle azioni cinesi a maggio, gli investitori scontano chiaramente la possibilità di tensioni commerciali prolungate.

Un avvertimento a Trump

La svolta può essere letta anche come un avvertimento a Trump che le guerre commerciali non sono ‘facili da vincere’, specialmente prima delle elezioni presidenziali statunitensi del novembre 2020, dato che la Cina si prepara a una lunga battaglia. Il tempo potrebbe essere dalla parte di Xi, ma l’uso di questa analogia gli permette anche di spiegare meglio ai cittadini cinesi un eventuale compromesso a breve termine sul commercio, presentandolo come una ritirata ‘tattica’ in un più ampio contesto di conflitto geopolitico a lungo termine.

Il maggior incentivo per il governo cinese a cercare un compromesso di qualsiasi tipo sul commercio è l’aumento della disoccupazione e il conseguente malcontento tra i lavoratori cinesi. Con l’indice PMI manifatturiero cinese che a maggio è sceso sui minimi dal marzo 2009 (47,0), è evidente che le misure di stimolo monetario e fiscale adottate in passato dalle autorità cinesi non sono state sufficienti a mitigare l’impatto dei dazi statunitensi su un’economia che si stava già raffreddando.

La Cina ha tre modalità per reagire: limitare le esportazioni di metalli rari su cui gli Stati Uniti fanno affidamento, vendere 1,2 trilioni di Treasury USA e svalutare la moneta nazionale. Le prime due opzioni sono poco praticabili in quanto sarebbero autolesionistiche, ma la terza sarebbe la minaccia più potente da parte della Cina.

Una valuta debole potrebbe mitigare l’impatto di nuovi dazi sui rimanenti 325 miliardi di dollari di esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti. Tuttavia, l’insegnamento appreso dalla svalutazione dello yuan nel settembre 2015 è che può dimostrarsi controproducente a causa dell’impennata della volatilità e del peggioramento delle condizioni finanziarie sui mercati cinesi.

In definitiva, a fronte di un beneficio immediato, una forte svalutazione dello yuan avrebbe costi significativi su un orizzonte di lungo termine, in quanto comprometterebbe il programma della Cina di aprire gradualmente il suo mercato dei capitali agli investitori esteri. Probabilmente non è una coincidenza che quando il rischio di un controllato deprezzamento della valuta cinese come arma di ritorsione aumenta, il Tesoro statunitense pubblica un rapporto in cui inasprisce i suoi criteri di manipolazione della valuta.

Consapevole delle controindicazioni di una ritorsione, Xi Jingping sta mirando adesso a una ‘nuova Lunga Marcia’. All’apparenza tutto questo sembra rassicurante, al pari della sua volontà di cercare un compromesso durante il vertice del G20 del 28 giugno a Osaka e dei suoi tentativi di rimediare alla recente incrinatura della grande liberalizzazione postbellica del commercio internazionale. Ma non possiamo darlo per scontato; i sistemi di difesa cinese faranno uso di software statunitense in futuro (e viceversa)? Il leader cinese potrebbe in effetti avere in mente una nuova Lunga Marcia in patria, non all’estero. Il protezionismo durerà a lungo.

Ricadute negative sui mercati emergenti

Nulla di tutto questo è di buon auspicio per gli asset dei mercati emergenti. La recente escalation delle tensioni commerciali Cina-USA e l’apertura di nuovi fronti da parte dell’amministrazione Trump creano ulteriori rischi al ribasso, soprattutto per i paesi più orientati alle esportazioni che beneficiano del commercio globale.

In risposta al flusso negativo di notizie legate al commercio, il momentum del prezzo dell’azionario dei mercati emergenti è peggiorato rispetto agli omologhi dei mercati sviluppati. Ciò è comprensibile, perché quando il protezionismo aumenta i volumi del commercio mondiale diminuiscono e la crescita degli utili dei mercati emergenti non riesce a tenere il passo.

Migliorare l’andamento della produttività aziendale imitando gli standard tecnologici occidentali diventerà più difficile se si innalzano barriere commerciali. In un mondo caratterizzato dal protezionismo le economie emergenti dovranno combattere la battaglia in salita di espandere da sole la frontiera del progresso tecnologico.

Inoltre, il recente calo dei prezzi del petrolio, che riflette l’indebolimento della domanda mondiale, non aiuta la ripresa degli utili delle economie emergenti nel breve termine. Dato che lo sconto delle valutazioni delle azioni emergenti rispetto a quelle dei mercati sviluppati non è particolarmente interessante in confronto alla media storica, siamo diventati più prudenti sull’esposizione ai mercati emergenti e abbiamo ridotto il nostro posizionamento sull’azionario emergente da neutrale a un modesto sottopeso.

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