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25 Giugno 2019

Abbiamo davvero bisogno di un taglio dei tassi?

di Joseph Amato, Presidente e CIO Neuberger Berman

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A chi è che non piace un bel rally del mercato azionario? A noi sicuramente piace, ma in questi giorni ci stiamo soprattutto chiedendo se un taglio dei tassi di interesse è davvero quello che serve all’economia mondiale.

Tre settimane fa i mercati hanno avallato l’“Opzione put Powell”. La settimana scorsa, sia la Federal Reserve sia Mario Draghi della Banca centrale europea (BCE) hanno ulteriormente confermato questo orientamento accomodante.

Il “dot plot” della Fed relativo alle proiezioni dei tassi di interesse ha registrato una flessione. Metà circa dei membri del FOMC prevede che quest’anno ci sarà almeno un taglio dei tassi e la settimana scorsa c’è chi tra di loro ne ha invocato uno. Nel suo comunicato, il Comitato ha espresso chiaramente la propria intenzione ad “agire in modo adeguato per sostenere l’espansione”, stralciando la parola chiave “paziente”.

Draghi aveva già impresso una forte spinta ai mercati dichiarando che, se l’obiettivo di inflazione della BCE fosse rimasto a lungo in bilico, sarebbero state “necessarie ulteriori misure di stimolo”. Ha poi aggiunto che, per affrontare una simile minaccia, la banca centrale avrebbe “riflettuto sulle modalità di adattamento degli strumenti a sua disposizione” e considerato l’eventualità di operare “ulteriori tagli nell’ambito delle politiche sui tassi di interesse”, ove necessario.

Il tasso di rifinanziamento della BCE è attualmente pari a zero e il suo tasso di deposito è negativo.

Responsabilità

Non sto dicendo che la recente debolezza dei dati economici non dovrebbe destare preoccupazione. Al contrario. Ma la vera domanda è un’altra: un taglio dei tassi risolverà il vero problema?

In genere, una politica monetaria accomodante è uno stimolo. Tuttavia, in questa fase del ciclo mi chiedo se stimoleranno l’attività economica in modo sostenibile. Fonte di maggiore preoccupazione è il fatto che un abbassamento dei tassi offre ai Governi uno scudo per evitare le proprie responsabilità in materia di bilancio, fornisce alle imprese improduttive un mezzo per tenersi a galla, toglie alle società un incentivo a investire e costituisce un fattore estremamente sfavorevole per il sistema bancario (specie in Europa).

Il risultato può essere sì una riduzione della volatilità nel ciclo economico, ma anche un rallentamento della crescita, una stagnazione della produttività e un calo dei rendimenti sul capitale investito.

A ben guardare, durante il più recente periodo di crescita del PIL statunitense, dal 2017 fino alla fine del 2018, l’orientamento della banca centrale non è stato accomodante. Al contrario, la Fed ha proseguito con la politica di normalizzazione dei tassi, mettendo fine alle ultime misure di quantitative easing. E, ancora più importante, a nostro avviso, le società hanno beneficiato di una riduzione delle imposte e le politiche di regolamentazione sono diventate molto meno restrittive.

A parte allentare le condizioni monetarie, gli Stati Uniti devono in qualche modo trovare un consenso politico sufficiente per affrontare questioni di bilancio di lungo termine, come i programmi previdenziali (Social Security, assistenza sanitaria) e la riforma dell’immigrazione, per non parlare del programma di investimenti nelle infrastrutture, che va definito e avviato. Analogamente, l’Europa deve raggiungere il consenso in materia di riforme normative e imposte sulle imprese ed elaborare un nuovo modello economico capace di venire incontro alle esigenze sia dei paesi membri più forti che di quelli più deboli. Siamo dell’avviso che una soluzione di questi problemi risulterebbe molto più efficace nel rafforzare la fiducia delle imprese, stimolando gli investimenti e sfociando in una crescita sostenibile della produttività.

La nostra view è che una riduzione dei tassi di interesse non produrrebbe gli stessi effetti. Ormai da qualche anno andiamo sostenendo che i governi debbano fare la loro parte.

Crescita sostenibile

A onor del vero, bisogna riconoscere che da diversi anni anche Draghi va sostenendo la stessa cosa. E mai come la settimana scorsa lo ha sottolineato, forse pensando al giudizio che la storia pronuncerà sul suo operato di presidente della BCE, ruolo che lascerà il prossimo ottobre. Le politiche monetarie producono gli effetti migliori in sinergia con le politiche di bilancio, ha insistito, criticando poi l’irrigidimento fiscale successivo alla crisi finanziaria.

I governi gli daranno ascolto?

La settimana scorsa, la “sovreccitazione” generata dalle politiche monetarie accomodanti ha provocato il rally dei titoli di Stato facendo registrare un nuovo record per il debito europeo a rendimenti negativi. Il Treasury USA a dieci anni è sceso al 2% circa. I mercati azionari hanno accelerato, rispecchiando un’espansione dei multipli anziché aspettative di un aumento degli utili. Come ho detto prima, tutti amano i rally.

Tuttavia, è difficile capire da dove giungerà il necessario consenso politico per creare una spinta a livello normativo e fiscale. Basta osservare la Germania. La più grande e più importante economia europea dipende pesantemente dal commercio globale, ha registrato un inquietante rallentamento negli ultimi 12 mesi e, rispetto agli altri Paesi della regione, ha spazi enormi di manovra per un’espansione di bilancio. Eppure non muove un dito.

Senza un reale intervento dei governi, il taglio dei tassi e l’acquisto di asset produrranno probabilmente effetti sempre minori. Può anche darsi che siano sufficienti a preservare l’espansione di questo lunghissimo ciclo, ma non crediamo che basteranno a creare le basi per una crescita più forte e più sostenibile. Al contrario, potrebbero addirittura intralciarla.

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