Ultime notizie

29 Ottobre 2015

Proprietari dimore storiche: niente Imu, non sono case di lusso

di I.L.

Condividi:
Facebook
Linkedin
Twitter
Whatsapp
16x9
Angle Left
Angle Right
ADV 970x90

L’associazione che riunisce i proprietari di dimore storiche in Italia, dice la sua su una vicenda che la vede protagonista: il reinserimento dell’Imu sui “castelli”, inclusa nella bozza di legge di Stabilità, che il Governo sta per varare, dove le dimore storiche vincolate sono equiparate - nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 - a ville moderne e residenze di lusso.

“Tutta la discussione sui castelli è viziata da un grosso errore di fondo: i castelli non sono oggi “beni di lusso - parte da questa premessa Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini, presidente nazionale Adsi -. 

Lo sono sicuramente stati in epoche passate, ma oggi la stragrande maggioranza dei “castelli” non produce alcun reddito, mentre impone alti costi di mantenimento”.

“Per di più, su imposizione dello Stato e non per volontà dei proprietari – aggiunge - sono catalogati come beni culturali e sottoposti ad un vincolo di tutela che impedisce, per esempio, di frazionarne e venderne gli spazi, o di ristrutturarli con le modalità e i costi di qualsiasi altro immobile” .

Il vincolo di cui sopra, sancito dall’articolo 9 della Costituzione italiana e dal Codice dei beni culturali, fa sì che la proprietà del bene sia fortemente limitata in capo al proprietario: l’immobile è riconosciuto come bene storico-artistico di interesse pubblico, ma affidato alla custodia di un privato, che ha tuttavia tutta la responsabilità, anche penale, di tenerlo in buone condizioni: con tutti i costi e gli oneri che ne discendono.

Il vincolo rende il bene non interessante anche dal punto di vista del mercato immobiliare: non è frazionabile, è costosissimo da mantenere, ogni intervento anche solo di manutenzione ordinaria è condizionato al benestare delle Sovrintendenze locali ai beni culturali.

Dal punto di vista economico, uno studio recente della Fondazione Bruno Visentini su un campione di circa 3300 dimore storiche vincolate italiane ha quantificato in oltre 24.000 euro l’anno i costi medi che sarebbero richiesti per la sola manutenzione ordinaria delle strutture, e in circa 73.000 le spese medie annue straordinarie che si renderebbero necessarie.

“Perfino un investitore estero, ammesso che ce ne fossero più di 30.000 interessati agli immobili italiani sottoposti a vincolo - commenta Diaz della Vittoria Pallavicini - si guarderebbe dall’investire in un immobile che non può modificare e non può rivendere, perché non esiste un “mercato” su cui venderlo.

Per di più si tratta di immobili che non corrispondono affatto alle esigenze del vivere di oggi: si pensi banalmente ai costi di riscaldamento, all’efficienza dei consumi energetici, al costo degli interventi di artigiani iperspecializzati per la gestione di qualsiasi intervento di manutenzione ordinaria o straordinaria”.

Beni culturali, quindi, non beni di lusso, la cui dimensione, struttura e caratterizzazione sono ormai estranei al concetto di lusso attuale, senza che ciò sia frutto di una scelta del proprietario (il quale per legge come detto non può modificare la struttura essenziale dell’immobile ed effettuare tutta una serie di interventi).

In aggiunta, il peso degli oneri, vincoli e maggiori costi ha trasformato questi immobili in beni assolutamente non “efficienti” in un’ottica reddituale: non sono assolutamente paragonabili ad altri immobili, e si può solo cercare di mantenerli nelle migliori condizioni possibili.

Il risultato di questa confusione fra “beni di lusso” e “beni culturali” anche all’interno del cosiddetto “mercato immobiliare”, è che molti immobili vincolati dallo Stato vengono abbandonati e lasciati andare in rovina, perché i proprietari non sono in condizione di mantenerli e di accollarsene gli oneri, di gestione e fiscali.

A fronte della situazione illustrata, l’associazione rilancia, chiedendo l'esenzione dall'Imu:

“L’impatto fiscale sulla manovra economica sarebbe minimale - conclude Diaz della Vittoria Pallavicini. e i benefici molto maggiori, stante che studi internazionali concordano nell’evidenziare che interventi di incentivo per la valorizzazione dei beni culturali hanno un ritorno sul territorio che va dal 160 al 220%, generato dall’impatto positivo per le categorie di artigiani coinvolti nei restauri, le maggiori entrate fiscali (IVA e IRPEF) e l’accresciuto richiamo turistico”.

7x10

È online il nuovo numero di REview. Questa settimana:   Student Housing: accordo per 800 nuovi