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13 Dicembre 2017

La persona dell'anno

di Richard Flax, Chief investment Officer di Moneyfarm

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La rivista Time, come da consuetudine, ha nominato la sua persona dell’anno. Per il 2017 la scelta è ricaduta sulle donne che hanno deciso di denunciare gli abusi subiti dagli uomini, una tendenza mondiale esplosa in seguito alle accuse di molestie verso il produttore cinematografico Weinstein. Ma se avessimo dovuto nominare una persona dell’anno per quanto riguarda i mercati finanziari e, più in generale, l’influenza sugli scenari geopolitici, la nostra decisione sarebbe ricaduta su Mohammed bin Salman, ministro della difesa e principe ereditario dell’Arabia Saudita.

Durante il mese di novembre, infatti, l'Arabia Saudita è stata teatro di un’operazione senza precedenti, una “stretta” che, col pretesto di ridurre la corruzione, sta ridisegnando la mappa del potere. Tra le centinaia di persone arrestate ci sono anche molti membri della famiglia reale e alcune delle persone più ricche del Paese. L’ispiratore del colpo di spugna è stato proprio il trentaduenne Mohammed bin Salman, figlio di re Salman e oggi, secondo molti, vera e propria guida del Paese. L’erede al trono è noto per le sue idee innovative ed è ispiratore del documento programmatico “Vision 2030” che declina un ambizioso programma di riforme. Nel corso della purga sono stati arrestati numerosi ministri, ex ministri e funzionari, e sono stati sequestrati miliardi di dollari di asset.

L’effetto che il commercio di petrolio può avere sull’economia di una nazione ha pochi eguali. I paesi esportatori di petrolio, specialmente quando non particolarmente popolosi, hanno spesso costruito delle società basate sull’opulenza e l’eccesso, che raggiungono livelli difficilmente immaginabili. Nel 2014, tuttavia, il prezzo del petrolio è crollato e con esso è suonata la sveglia per tutti i paesi che concentrano la propria economia sull’esportazione del greggio. Non tutti sono stati colpiti da crisi come quella che ha riguardato la Russia o come quella che ha colpito il Venezuela, giunto al default tecnico. Il messaggio però è stato il medesimo, se si vuole avere anche una minima speranza di mantenere nel futuro gli attuali livelli di benessere: l’unica via è diversificare la propria economia.

In un futuro non troppo lontano, l’espansione delle energie rinnovabili e alcune innovazioni tecnologiche come le auto elettriche diminuiranno la domanda di petrolio. Nel 2014 sembrava che l’Arabia Saudita fosse un muro incrollabile, con i suoi 737 miliardi di dollari di riserve. Da quando il prezzo del petrolio è crollato, in pochi anni le riserve sono scese sotto la soglia dei 500 miliardi e molti dei faraonici progetti che il Governo aveva messo in cantiere sono stati ritirati. Nel grafico si può apprezzare la relazione tra il prezzo del petrolio e l’ammontare delle riserve. La crisi, pur prevenuta dalla montagna di liquidità su cui siede il gigante del golfo, ha aperto una breccia allarmante nel cordone di sicurezza.

In questo contesto la morte del re Abdullah apre al rinnovamento, con una nuova generazione di leader che si trova nella difficile condizione di dover aumentare la credibilità del Paese, che appare agli investitori internazionali come un sistema chiuso e complesso dove solo parenti e amici possono fare affari e magari anch’essi si trovano a dover oliare la macchina con qualche tangente.

Giustificabili o meno – l’indice di corruzione percepita di Transparency International pone l’Arabia Saudita al 62 posto, appena due posizioni dietro l’Italia – questi capovolgimenti, che testimoniano conflitti di potere interni, fanno parte dello sforzo del Paese per rilanciare la propria immagine e la propria appetibilità per gli investitori stranieri e nella stessa direzione vanno letti alcuni provvedimenti di bandiera come l’allentamento delle restrizioni di guida alle donne, una questione che aveva fatto inorridire l’opinione pubblica mondiale. Nella stessa direzione va anche l’annuncio di quotare in borsa una parte del colosso petrolifero Aramco, un mossa che allo stesso tempo invia un segnale di apertura dell’economia e che serve a fare un po’ di cassa.

Questo periodo turbolento avrebbe avuto il potenziale di ripercuotersi negativamente sulle prospettive del petrolio. Ma come è evidente, quando si parla di un business di famiglia, anche le diatribe interne alla casata Saudita passano in secondo piano. I paesi OPEC e i paesi non OPEC hanno deciso di procrastinare il taglio della produzione così da sostenere il prezzo nel prossimo futuro. La mossa era già stata anticipata dal mercato, ma conferma l’output positivo sul petrolio, che è peraltro confermato dalla valutazione delle altre materie prime. In questo senso, il comparto potrebbe dare un’ulteriore spinta all’inflazione, il cui andamento lento è stata una delle caratteristiche di questo 2017. Al momento, se si guarda alle valutazioni di mercato e alle prospettive di crescita globale, sembra aprirsi una finestra: gli strumenti inflation linked potrebbero essere una delle scelte migliori per questo inizio 2018.

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