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È triste pensare alla Borsa di Piazza Affari del passato. Andando indietro nel tempo, negli anni Ottanta del secolo scorso viene in mente Everardo Della Noce, il giornalista Rai che aveva l’esclusiva dei collegamenti dalla Borsa. Un signore, preparato e gentile. Ai tempi la Borsa organizzava addirittura corsi al suo interno per spiegare ai giornalisti il funzionamento degli scambi. Ad uno partecipai anche io per il Corriere della Sera.
Oggi lo sconforto ti assale. Il 2022 è stato l’anno dei delisting e il 2023, secondo gli annunci della stampa amica, dovrebbe essere quello della ripresa. Beato ottimismo, perché basta pensare al possibile delisting della Juventus e un altro miliardo di euro di capitalizzazione andrebbe in fumo.
Ma quello che preoccupa è il livello delle aziende che trovano spazio in Piazza Affari. Terminati gli sbarchi dei colossi industriali, farmaceutici, bancari ora c’è la gara a far quotare impese davvero piccolissime, con fatturati incerti e attività tipiche che non promettono una rapida e vigorosa crescita..
Trovano spazio nel segmento ex AIM, che ora si chiama più elegantemente Euronext Growth Milan.
Inizialmente era raccontato come il Nasdaq italiano, oggi appare ben diverso.
È un segmento non regolamentato, non è la Consob ad autorizzare la quotazione ma la stessa Borsa Italiana, la bontà del piano industriale non è un requisito indispensabile ma soprattutto in questo segmento gli investitori istituzionali non entrano. Se l’obiettivo è la raccolta di finanziamenti per la crescita forse è meglio cercare altre strade, perché restare quotati, anche se all’ex Aim, è costoso.
Per esempio oggi 25 gennaio sbarca alle quotazioni Deodato, gallerie d’arte. Ha raccolto 2,2 milioni di euro. Per carità, va benissimo e saranno bravissimi nel loro lavoro e il futuro sarà radioso, ma ne è valsa la pena?
(NB Aggiornamento: il primo giorno di quotazione di Deodato chiude con un rialzo del 50%. Sono state scambiate in un unico ordine 15.000 azioni per un controvalore di soli 7.500 euro. Che è il motivo per il quale gli investitori istituzionali non entrano nei titoli sottili).
Se poi ci spostiamo nel nostro settore, per l’immobiliare è un disastro. L’ultima IPO, a dicembre, è di un’azienda fondata nel 2015 che ha fatturato lo scorso anno 400mila euro, in rosso di 50mila. Va bene, tanto di cappello a chi vuole rischiare e riesce a convincere gli investitori del proprio valore. Il problema è che gli investitori veri non frequentano questi segmenti.
L’effetto è un disastro d’immagine per l’immobiliare quotato e una caduta di credibilità della stessa Borsa Italiana che crediamo stia vivendo una delle peggiori gestioni della storia.
Nel 2015 quando abbiamo portato RE ITALY in Borsa lo scopo era di mostrare al Real Estate i vantaggi della quotazione. Da allora la Coima Res (del Qatar) è riuscita a quotarsi e scapparne fuori, pensando poi a DeA Capital, Aedes, ai fondi immobiliari quotati che sono svaniti mi viene in mente come a volte si rimanga legati a modelli che non esistono più. Come chi non più giovane quando gioca la schedina delle partite di calcio la chiama Sisal, il nome del concorso del Dopoguerra. O a chi in un negozio di computer cerca ancora un computer IBM.
Serve essere quotati all’ex AIM di Milano? Serve a Borsa perché ognuno versa delle fee, serve agli advisor perché lavorano. Se lo scopo è raccogliere finanziamenti fino a un paio di milioni di euro forse sono più convenienti altri canali, come il crowdfunding.
Certo essere quotati è un segno distintivo. Come per noi di Monitorimmobiliare essere il secondo azionista del Sole 24 Ore dopo Confindustria.
Che poi serva al fatturato è tutto da dimostrare.
È online il nuovo numero di REview. Questa settimana: Demanio: partenariato pubblico-priva
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